La Parola della Domenica 23 ottobre

La Parola della Domenica 23 ottobre

Dal libro del Siràcide Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nnel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.Dal Vangelo secondo Luca In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».Una parabola “di battaglia”, in cui Gesù ha l’audacia di denunciare che pregare può essere pericoloso, può perfino separarci da Dio, renderci “atei”, adoratori di un idolo. Il fariseo prega, ma rivolto a se stesso; conosce le regole, inizia con le parole giuste «o Dio ti ringrazio», ma poi sbaglia tutto, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Per l’anima bella del fariseo, Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva. Un muto specchio su cui far rimbalzare la propria arroganza spirituale. Io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio. Offende il mondo nel mentre stesso che crede di pregare. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire, dire male dei suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli. Quella preghiera ci farebbe tornare a casa con un peccato in più, anzi confermati e legittimati nel nostro cuore e occhio malati. Invece il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: «tu», «Signore, tu abbi pietà». La parabola ci mostra la grammatica della preghiera. Le regole sono semplici e valgono per tutti. Sono le regole della vita. La prima: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona: nella coppia, con i figli o con gli amici, con Dio. Il nostro vivere e il nostro pregare avanzano sulla stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di qualcuno (un amore, un sogno o un Dio) così importante che il tu viene prima dell’io. La seconda regola: si prega non per ricevere ma per essere trasformati. Il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri sbagliati, e forse un po’ anche Dio. Il pubblicano invece non è contento della sua vita, e spera e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta. E diventa supplica con tutto se stesso, mettendo in campo corpo cuore mani e voce: batte le mani sul cuore e ne fa uscire parole di supplica. Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà) ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – a Dio che entra in lui, con la sua misericordia, straordinaria debolezza di Dio, unica onnipotenza.
CATECHESI PAPA FRANCESCO che sceglie oggi di soffermarsi “su un altro ingrediente indispensabile”: la propria storia di vita. E subito ne spiega il perché:  La nostra vita è il “libro” più prezioso che ci è stato consegnato, un libro che tanti purtroppo non leggono; eppure, proprio in quel libro si trova quello che si cerca inutilmente per altre vie.
L’esempio di Sant’Agostino Il Papa cita Sant’Agostino, “un grande cercatore della verità”, affermando che egli aveva fatto quest’esperienza interiore e nella sua vita aveva letto la presenza del Signore, tanto da scrivere alla fine nelle Confessioni: “Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te” Mentre nel libro La vera religione  invitava: “Rientra in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità”. E Francesco sottolinea: “Leggi la tua vita. Leggiti dentro, come è stato il tuo percorso. Con serenità. Rientra in te stesso”. Molte volte abbiamo fatto anche noi l’esperienza di Agostino, di ritrovarci imprigionati da pensieri che ci allontanano da noi stessi, messaggi stereotipati che ci fanno del male: per esempio: “Io non valgo niente”, e tu vai giù;  “a me tutto va male”, e tu vai giù; “non realizzerò mai nulla di buono”, e tu vai giù e così è la vita. Queste frasi ti buttano giù. Leggere la propria storia significa anche riconoscere la presenza di questi elementi “tossici”, ma per poi allargare la trama del nostro racconto, imparando a notare altre cose, rendendolo più ricco, più rispettoso della complessità, riuscendo anche a cogliere i modi discreti con cui Dio agisce nella nostra vita. Scoprire nella propria vita le perle preziose disseminate da Dio. Il Papa spiega che l’esercizio del discernimento propone domande che ci spingono a una riflessione profonda sulle nostre azioni, non fermandosi a ciascuna di esse, ma leggendole in un contesto più ampio. Ci fa chiedere, ad esempio, da dove ci viene un pensiero e dove ci porta? Guardare alle vicende della vita ci consente, afferma, di notare dettagli preziosi. Per esempio, una lettura, un servizio, un incontro, a prima vista ritenuti cose di poca importanza, nel tempo successivo trasmettono una pace interiore, trasmettono la gioia di vivere e suggeriscono ulteriori iniziative di bene. Fermarsi e riconoscere questo è indispensabile. Fermarsi è riconoscere: è importante per il discernimento, è un lavoro di raccolta di quelle perle preziose e nascoste che il Signore ha disseminato nel nostro terreno. Il bene è nascosto (…), silenzioso, richiede uno scavo lento e continuo. Perché lo stile di Dio è discreto: a Dio piace andare nascosto, con discrezione, meglio no?, non si impone; è come l’aria che respiriamo, non la vediamo ma ci fa vivere, e ce ne accorgiamo solo quando ci viene a mancare.
La ricerca di Sant’Ignazio di Loyola Rileggere la propria vita “educa lo sguardo”, prosegue Papa Francesco, ci fa vedere i “piccoli miracoli” che Dio compie per noi e ci indica nuove strade perché, osserva, “saggiamente è stato detto che l’uomo che non conosce il proprio passato è condannato a ripeterlo”. E Francesco invita ciascuno a raccontare ad un altro la propria vita, “si tratta-  afferma – di una delle forme di comunicazione più belle e intime”. Lo fanno i fidanzati, dice, quando fanno sul serio. Infine offre ancora un suggerimento:
Anche le vite dei santi costituiscono un aiuto prezioso per riconoscere lo stile di Dio nella propria vita: consentono di prendere familiarità con il suo modo di agire. Alcuni comportamenti dei santi (es. s. Ignazio) ci interpellano, ci mostrano nuovi significati e nuove opportunità.
L’esame di coscienza per capire cosa succede in noi S. Ignazio aveva scoperto che “alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro” e che pian piano aveva cominciato “a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui”. Così possiamo imparare a fare anche noi. E il Papa conclude aggiungendo a braccio: Chiediamoci, alla fine della giornata, per esempio: cosa è successo oggi nel mio cuore? Alcuni pensano che fare questo esame di coscienza è fare la contabilità dei peccati che hai fatto. Ah, ne facciamo tanti, no? No, no: cosa è successo dentro di me. Ho avuto gioia? Cosa mi ha portato la gioia? Sono rimasto triste? Cosa mi ha portato la tristezza? E così imparare a discernere cosa succede dentro di noi.

20 ottobre 2022, parrocchiadiprestino