La Parola Della Domenica 13 settembre

La Parola Della Domenica 13 settembre

O Dio di giustizia e di amore, che perdoni a noi se perdoniamo ai nostri fratelli, crea in noi un cuore nuovo a immagine del tuo Figlio,
un cuore sempre più grande di ogni offesa,
per ricordare al mondo come tu ci ami.

Dal libro del Siràcide Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati? Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.

Rit: Il Signore è buono e grande nell’amore.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

Dal Vangelo secondo Matteo In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così an
che il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l’asticella della morale, porta la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura. E lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore «allora, gettatosi a terra, lo supplicava…». Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre. Quando noi preghiamo: rimetti i nostri debiti, stiamo chiedendo: donaci la libertà, lasciaci per oggi e per domani tutta la libertà di volare, di amare, di generare.
Ma il servo perdonato “appena uscito”: non una settimana, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito”, ancora stordito di gioia, appena liberato «preso per il collo il suo collega, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui condonato di milioni! Nitida viene l’alternativa evangelica: non dovevi anche tu aver pietà ? Siamo posti davanti alla regola morale assoluta: anche tu come me, io come Dio… non orgoglio, ma massima responsabilità. Perché perdonare? Semplice: perché così fa Dio. Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito. Quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché liberare dal debito, aggiungo una sbarra alla prigione. Penso di curare una ferita ferendo a mia volta. Come se il male potesse essere riparato, cicatrizzato mediante un altro male. Ma allora saranno non più una, ma due ferite a sanguinare. Il vangelo ci ricorda che noi siamo più grandi della storia che ci ha partorito e ferito, che possiamo avere un cuore di re, che siamo grandi quanto «il perdono che strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri il male subìto, rompe la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio» (Hanna Arendt). Il tempo del perdono è il coraggio dell’anticipo: fallo senza aspettare che tutto si verifichi e sia a posto; è il coraggio degli inizi e delle ripartenze, perché il perdono non libera il passato, libera il futuro. Poi l’esigenza finale: perdonare di cuore… San Francesco scrive a un guardiano che si lagnava dei suoi frati: farai vedere negli occhi il perdono. Non il perdono a stento, non quello a muso duro, ma quello che esce dagli occhi, dallo sguardo nuovo e buono, che ti cambia il modo di vedere la persona. E diventano occhi che ti custodiscono, dentro i quali ti senti a casa. Il perdonante ha gli occhi di Dio, colui che sa vedere primavere in boccio dentro i miei inverni.

ci sono mani che accarezzano, sollevano, difendono, abbracciano, sostengono. Ci sono mani che strattonano, giudicano, discriminano, violentano, uccidono. L’episodio drammatico che ha portato alla morte di Willy, giovane che, nel suo percorso di crescita, ha incontrato il cammino associativo di Azione Cattolica, è questione di mani: le sue, che cercano di salvare, di rappacificare, di risolvere un litigio, e altre, che afferrano e tolgono la vita.

Noi siamo le nostre mani: meno si abituano ad aprirsi e a stringere altre mani e più si chiudono a riccio, moltiplicando disumanità e violenza. L’educazione non passa attraverso grandi rivoluzioni o astratti proclami: si gioca nei gesti più comuni, quelli che troppo spesso riteniamo periferici, secondari, come le movenze delle nostre mani, che possono invece salvare o uccidere. Educare è riabilitare le mani a riconoscere la dignità del-l’altro, la ricchezza della sua differenza; significa allenarle a una forza che non sta nell’arroganza, ma nel coraggio di prendersi cura dell’altro.

Gesù, nei Vangeli, guarisce la mano inaridita di un uomo, rimettendolo al centro, poiché spesso la violenza e la chiusura nascondono una grande mancanza di affetto, di vicinanza, di comprensione. Il Risorto da morte riabilita la mano di Tommaso a mettere il dito nelle ferite della crocifissione, perché l’apostolo possa sentire sulla sua pelle quanto l’amore sia più grande di ogni gesto di morte. Sarebbe un fallimento, dunque, non lasciarsi toccare dalla morte di Willy!

Mettiamo anche noi le mani nel dramma terribile che è accaduto, chiedendoci con onestà se abbiamo il coraggio di denunciare a viso aperto, al di là di ogni colore politico, quei piccoli continui atteggiamenti quotidiani che incitano all’odio, alla discriminazione, alla sottomissione, come se tutto questo fosse tremendamente normale! Domandiamoci se le nostre comunità sono davvero luoghi in cui imparare la saggezza dell’abbraccio e non covi solitari in cui cresce l’abitudine all’aggressione e al risentimento! Noi siamo le nostre mani. In quella rissa c’erano tante mani, tutte uguali, tutte umane, eppure così diverse! La differenza sta in ciò che ha indotto Willy a riattraversare la strada, per andare in soccorso all’amico in difficoltà.

Ciascuno chiamerà questa spinta in modo diverso, ma è proprio questa differenza umana (così divina!) che è necessario innescare, animare, dischiudere negli anfratti più difficili e delicati delle giovani generazioni. Lo dobbiamo a Willy, alla sua famiglia, a cui cerchiamo di essere vicini, come una mano che abbraccia e sostiene. Lo dobbiamo ai giovani che verranno, perché abbiano il coraggio di mani che sappiano curare, generare vita, anche quando tutto questo può dare fastidio, fino a pagare di persona. Noi siamo le nostre mani, in bene o in male, nella speranza che anche chi le ha usate per uccidere possa, un giorno, ritornare sui propri passi, o meglio sui passi di Willy, per riattraversare quella medesima strada. Questa volta, però, come ha fatto lui.

11 settembre 2020, parrocchiadiprestino