La Parola della Domenica – 22 settembre

La Parola della Domenica – 22 settembre

O Padre, che ci chiami ad amarti e servirti come unico Signore,
abbi pietà della nostra condizione umana; salvaci dalla cupidigia delle ricchezze, e fa’ che, alzando al cielo mani libere e pure, ti rendiamo gloria con tutta la nostra vita.

 

Dal libro del profeta Amos. Il Signore mi disse: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».

Rit: Benedetto il Signore che rialza il povero.

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo. Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.

Dal Vangelo secondo Luca. In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.  Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Non è gran-cosa l’amicizia: piuttosto è un milione di piccole cose. Dove gli amici sono come le pareti della casa: a volte ci si appoggia su di loro, altre volte basta anche solo sapere che ci sono per vivere meno impauriti. Appena giunta notizia del suo licenziamento l’uomo della storia di questa domenica prende il denaro, che amministra per conto terzi, e lo usa per farsi amici i debitori del suo padrone. La situazione che si profila innanzi incute angoscia: «Che cosa farò, ora, che il mio padrone mi toglie l’amministrazione?». Si guarda allo specchio, mette ordine a ciò che gli è rimasto in tasca. E’ poca roba, insufficiente per campare tutto il resto della sua vita: «Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno». S’avvale della sua scaltrezza per assicurarsi un piatto di minestra domattina: «So io che cosa farò per quando sarò stato allontanato dall’amministrazione». Il suo padrone è inamovibile nella decisione? Lui s‘inventa una nuova clientela: decide, da gran-genio qual è, di puntare tutto sull’amicizia: sull’immateriale, lui che in azienda era l’uomo della materialità. Dei soldi, dunque, che sono anche la materia-prima della bestialità. Dell’ingiusta ricchezza.

Chiama al rapporto tutti coloro che sa essere debitori del suo padrone e, finché è ancora in suo potere di farlo, ne trasfigura l’intera loro fisionomia: «Alcune persone si rifugiano in chiesa; altre nella poesia; io nei miei amici» (W. Woolf). Li vede entrare che sono degli umani schiacciati dal peso d’un grosso debito, li aiuta ad uscire che sono mezzi-sistemati – loro e l’intera loro famiglia – per la stagione. Tramutare la destinazione d’uso d’una situazione, nei Vangeli, è la manovra più amica, la più antica: gli amici son quelli che ti aiutano a rialzarti quando le altre persone neanche sapevano ch’eri caduto. Sprofondato: «La nostra grande colpa come cristiani – scrive don Primo Mazzolari nella sua opera Il compagno Cristo. Il Vangelo del reduce – non è che dopo duemila anni ci siano ancora dei poveri, ma che sia umiliante e vergognoso fare il povero in terra cristiana, e che qualche forma della nostra carità ne abbia ribadito la vergogna». E’ lo spettacolo che il Vangelo assicura essere il più ricco d’intrigo: la contemplazione di un’anima che, caduta per terra, si rialza e torna a camminare. Entrano indebitati fin sopra i capelli, escono con la schiena gobba dalla troppa gioia: cinquanta barili d’olio a uno, ottanta misure di grano all’altro. Servo degli amici, non più schiavo del denaro. Ecco perché Cristo, Lui ch’è sempre capace d’andare a stanare il positivo, di getto diventa malinconico: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce (…) Fatevi degli amici con la disonesta ricchezza, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». Pare proprio che Cristo, come il titolare di quella ditta, abbia fatto la sua scelta e non sia disposto a mercanteggiare, costi quel che costi: nessuno varcherà la porta-santa del Cielo senza la raccomandazione di un povero. I discepoli «come riusciranno a cavare il bene dal male senza fare peccato, a essere candidi e furbi nello stesso tempo?» (L. Santucci)

I benestanti – quelli che, quando s’accorsero che il gioco-di-Cristo era pericoloso, han preso i comandamenti e li han restaurati per gli altri – diranno oggi che Cristo ha esagerato, che s’è spinto un po’ troppo oltre il buon senso. Han capito nulla, neanche stavolta: di quell’amministratore-cacciato non lodò affatto la disonestà, ma ne prese la scaltrezza e la mise in cattedra. La ricchezza, in fin dei conti, è disonestà visto che Dio creò l’uomo, non il ricco e il povero: non è colpa del buon-Dio se invece d’allargare i granai abbiamo allargato i cimiteri; di moltiplicare il pane, abbiam moltiplicato il piombo. L’uomo ha molti corteggiatori e pochi amici: trattarlo bene, costa immensamente di più che parlarne bene. Coi profughi, con i cassintegrati, con i galeotti delle patrie galere: «Per molti, la scoperta della miseria dell’uomo è pretesto di sfruttamento e di dominio. Qualcuno anzi la prepara, la provoca. Per guadagnarsi il titolo di benefattori, per farsi pagare il servizio di recupero, lo buttano a terra e lo fanno a pezzi, l’uomo» (P. Mazzolari).

Cristo, insomma, ha troppa stima dell’uomo: per questo gli parla da uomo, con franchezza. L’altra furberia, la faccia peggiore della furbizia, rimane una forma d’intelligenza marcia.

20 settembre 2019, parrocchiadiprestino