La Parola della Domenica – 12 maggio

La Parola della Domenica – 12 maggio

O Dio, fonte della gioia e della pace, che hai affidato al potere regale del tuo Figlio le sorti degli uomini e dei popoli, sostienici con la forza del tuo Spirito, e fa’ che nelle vicende del tempo, non ci separiamo mai dal nostro pastore che ci guida alle sorgenti della vita.

Dagli Atti degli Apostoli In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

Dal Vangelo secondo Giovanni In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Il vuoto è la più grande delle paure, quella che sovrasta e annerisce l’animo umano. Il vuoto, decantato nelle sue mille sfumature possibili: il cuore vuoto, vuota la sedia, la casa vuota, vuota anche la storia. Ancor di più: il Cielo vuoto. La paura-da-novanta, l’angoscia che sequestra la speranza: che Lassù, dietro il mistero indecifrabile dei cirri e dei cumulonembi, non sia rimasto nessuno a porgere l’orecchio ad un grido. Che le urla di quaggiù – tramutate sovente in litanie di bestemmie – a nessun cuore possano importare granché. Il Cielo vuoto, il Dio assente, la storia imbrogliata: la grande goduria di Lucifero. Al quale risponde il Vangelo: «Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi seguono». C‘è una Voce che annulla la distanza siderale tra Cielo e Terra, che abbevera la solitudine vasta dei pensieri umani, che aggancia il Creatore alla sua creatura. C’è una Voce, quindi uno sguardo, anche una benedizione. I care, Dio s’interessa dell’uomo, si prende cura di Lui, veglia perché «non andranno perdute in eterno e nessuno (più) le strapperà dalla sua mano». E’ una voce, anche un viaggio, di quelli «verso le strade storte, i tetti sfondati, il fango rappreso, le porte rotte, le stanze fredde, i sandali bucati, la vita senza parole, le croste su ginocchia di bambini balbuzienti» (Affinati, L’uomo del futuro). Le conosce, il Cielo, quelle strade: a menadito perché sono le strade di casa, sentieri additati perché prima già abitati, strade che son volti e percorsi dentro i quali la Voce non s’impone, ma si propone: non vi entra con scarponi da montagna, s’addentra in una conversazione già in atto, potenza discreta dal timbro soave, familiare. Una voce che è manualità, roba tipica di chi sa maneggiare le mani con cognizione di causa: «Nessuno le strapperà dalla mia mano». Mani che sanno dove mettere-le-mani: ai perché ultimi, alle radici, che spingono fin alla sorgente della propria storia: “C’è un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto” fu l’imbarazzo della donna di Samaria. S’aggiungerà pure Zaccheo, il ladrone, la Maddalena, il cieco di Gerasa, lo zoppo, il farabutto ... Pecore-senza-pastore divenute, di lì a poco, pecore di un pastore del quale sanno bene riconoscere «la voce (…) e lo seguono». Non più brutte-copie di esistenze sbagliate, bensì interpreti di uno spettacolo da sogno: l’essere pecore di un Pastore dalla voce bellissima. Giù le mani, dunque, dalle pecore. Che nessuno tocchi il loro destino: alla faccia delle barzellette che girano sul loro conto, del fare-da-pecora, dell’essere pecora al modo di quaggiù. C’è un raddoppio di mani a proteggerle: quelle del Figlio – «Nessuno le strapperà dalla mia mano» – e quelle del Padre: «Nessuno può strapparle dalla mano del Padre». Mani che sanno intravedere la vita dentro gli «scarti di lavorazione. Unghie tagliate. Pezzi difettosi. Lebbrosi spirituali»: una questione di mani e di voce, come Emmaus: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?». Come nell’arrendevole constatazione di chi Gli fu avversario: «Tutto il mondo gli è andato dietro».Il Pastore fu uomo di fuoco, di lacrime, di azione di adorazione. Di pani, di pesci, di pensieri vertiginosi. Ha usato come nessun altro quella vecchia strumentazione che fu la voce, convinto com’era che quand’anche avessimo cancellato la fame dal mondo, avremmo fatto ancora poco. L’uomo non è solo un essere da sfamare, da vestire, d’alloggiare, da difendere, da curare, d’assicurare. Ancor prima, è una creatura da illuminare, da consigliare e confortare, da incoraggiare. D’aiutare ad innalzarsi: l’uomo ha fame di parole. Di quelle che vanno dritte dove sai che ti fa male. Per aprire un varco sulla paura del vuoto

9 maggio 2019, parrocchiadiprestino