“Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico”

“Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico”

«Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico da combattere o da odiare». Negli ultimi tempi «si è diffuso un clima di paura, a volte alimentato in modo irresponsabile, che ha fatto emergere rigurgiti xenofobi». Parole durissime quelle del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani, che diventano un monito nei giorni dell’ennesimo braccio di ferro tra il ministro dell’Interno Salvini e una nave Ong piena di disperati del mare. Vengono in mente il giuramento sul Vangelo del leader leghista, i richiami all’«accoglienza prudente» di papa Francesco e le polemiche – presenti e accese anche nelle parrocchie – sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli immigrati.

Eminenza, un cattolico come deve rapportarsi al tema migranti?

«I cattolici devono rapportarsi al tema dei migranti con grande amore e fede certa, tenendo sempre a mente il Vangelo di Matteo: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto”. Papa Francesco ha donato alla Chiesa 4 verbi per affrontare la sfida delle migrazioni internazionali: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Quattro verbi che sintetizzano una lunga serie di azioni pastorali ma che hanno un unico grande significato: attraverso l’accoglienza noi scegliamo di accogliere Cristo nella nostra vita e difendiamo la dignità inviolabile di ogni essere umano. Perché – è bene ricordarlo con fermezza – i migranti fanno parte dell’unica famiglia umana e non sono cittadini di serie B. I migranti sono gli ultimi, i piccoli e i poveri di questo mondo e come disse Paolo VI i poveri appartengono alla Chiesa per “diritto evangelico”. Con altrettanta fermezza vorrei ribadire un concetto che forse scomoda i benpensanti: per un cattolico è assolutamente immorale vedere nel migrante un nemico da combattere o da odiare».

L’Italia è inquinata dal razzismo?

«L’Italia è un Paese con una grande tradizione umanitaria ed è abitata da un popolo gioioso e creativo che nei momenti di difficoltà ha sempre dato il meglio di sé. Quindi non direi che l’Italia è inquinata dal razzismo. Penso, però, che negli ultimi anni, complice una durissima crisi economica, si è diffuso un clima di paura e di incertezza, a volte alimentato in modo irresponsabile, che ha contaminato lo spirito pubblico fino a far emergere alcuni rigurgiti xenofobi».

Come bisogna affrontare il diffondersi di populismi e sovranismi? Quali sono i pericoli che ne derivano?

«Ogni epoca storica ha avuto i suoi “ismi” pericolosi: comunismo, fascismo, nazismo, laicismo, relativismo e via discorrendo. Solitamente, tutte queste ideologie hanno promesso all’uomo un paradiso in Terra che consisteva nel benessere e nella felicità. Oggi come ieri bisogna quindi stare molto attenti nel promettere al popolo delle facili ricette. Il rischio grosso è che con il passar del tempo queste ricette si traducano facilmente in soluzioni illusorie e quindi possano generare ancor più frustrazione e rabbia sociale. Penso dunque che sarebbe opportuno tornare a guardare con saggezza e realismo alla tradizione del popolarismo sturziano e al personalismo di Maritain. Il popolo infatti non si accarezza con gli slogan e le promesse mirabolanti ma lo si aiuta a crescere fornendo risposte concrete e parole di verità».

A 100 anni dall’appello di don Sturzo, che cosa sono chiamati a essere e a fare i cattolici in politica? E che ruolo dovrebbero avere i preti e i vescovi?

«I cattolici in politica sono chiamati a mettere in pratica autenticamente la logica del servizio: non si fa politica per carriera, per soldi o per bramosia di potere, ma come impegno di umanità e santità. La politica è una missione in cui i cattolici possono rendere testimonianza al Vangelo servendo con carità il proprio Paese. I pastori invece hanno un altro grande compito: quello di esortare alla fedeltà del magistero della dottrina sociale della Chiesa Cattolica, alla comunione fraterna e alla solidarietà tra le persone. Non mi stancherò mai di dirlo: il laicato cattolico deve superare, una volta per tutte, questa vecchia e sterile divisione tra chi si occupa solo di bioetica e chi soltanto di povertà. Il messaggio sociale del cristianesimo è unitario e si basa sulla salvaguardia della dignità della persona umana in ogni circostanza: dalla maternità al lavoro, dal rapporto con la scienza alla cura dei migranti».

Uno dei temi cruciali per la Chiesa è la famiglia: qual è lo “stato di salute” della famiglia? Di che cosa ha più bisogno? 

«A me sembra che oggi siamo in presenza di “famiglie sole” che vivono in un mondo liquido ma che, nonostante le moltissime difficoltà, continuano ad essere “la roccia” della nostra società. Fare una famiglia oggi è un atto di eroismo incredibile perché significa andare totalmente controcorrente. Contro un sistema sociale e culturale che privilegia ogni forma di individualismo rispetto alla famiglia e favorisce ogni desiderio al di là di ogni responsabilità. Oggi sembra quasi impossibile parlare al mondo dell’esistenza di un amore per sempre, che non finisce e non si divide. Eppure, nonostante questa lunga serie di ostacoli che rendono difficile la vita delle coppie, la famiglia continua ad essere un baluardo, anzi, una roccia della nostra esistenza. La prima cosa di cui oggi c’è assoluto bisogno consiste nel ribadire, con forza, che l’unione matrimoniale tra un uomo e una donna, aperta ai figli, non è una struttura residuale della storia, ma è la cellula fondamentale ed insostituibile del nostro vivere in comune».

Che cosa dovrebbero fare i governanti in ambito familiare? C’è un modello di politiche familiari di qualche paese straniero a cui Lei farebbe riferimento?

«I paesi stranieri, soprattutto quelli con una democrazia ancora giovane e con un passato autoritario, non li prenderei come esempio: devono ancora maturare, hanno molta strada da fare. Riguardo all’Italia la prima considerazione da fare è un po’ amara. Perché, al di là delle tante parole, siamo ancora indietro sulle politiche familiari. Il presente e il recente passato sono infatti caratterizzati da tante chiacchiere e pochi fatti. Io penso, invece, che ci siano almeno tre campi su cui agire concretamente: in primo luogo, un nuovo welfare più vicino alle famiglie che non si traduca soltanto in piccoli interventi monetari ma che produca un nuovo intervento sociale a sostegno delle coppie giovani, dei precari, delle donne e della natalità; in secondo luogo, un rafforzamento dell’alleanza scuola-famiglia, in cui gli alunni siano al centro del progetto educativo, i docenti siano valorizzati nella loro professionalità, e le famiglie siano salvaguardate da ogni deriva ideologica in campo educativo; in terzo luogo, infine, ciò di cui c’è più bisogno, oggi, è una nuova organizzazione del lavoro che si basi sul cosiddetto fattore famiglia».

In che senso?

«Occorre ripensare i tempi di lavoro e bilanciarli con quelli di un armonico sviluppo morale e civile, non solo economico, della famiglia. Sono sicuro che se un lavoratore è inserito in un ambiente di lavoro sereno, rispettoso dei tempi familiari, lavori meglio e la società nel suo insieme ne può trarre beneficio».

Che cosa pensa delle tensioni attorno al Congresso della famiglia di Verona?

«La famiglia sta particolarmente a cuore alla Chiesa, proprio per questo ci dispiace che finisca in polemiche strumentali».

Quanto serviva davvero il reddito cittadinanza?

«Tutto ciò che va in soccorso ai poveri è senza dubbio positivo. E quindi, come Chiesa, riceve la nostra attenzione e il nostro riconoscimento. Direi, però, che ci troviamo di fronte soltanto all’inizio di un tentativo di aiuto nei confronti di chi è in difficoltà. Le politiche di lotta alla povertà, probabilmente, dovranno avere un carattere più organico e non potranno ridursi soltanto all’erogazione temporanea di un reddito. Sarebbe opportuno, infatti, fornire un sostegno diretto al lavoro e all’occupazione. E in più bisognerebbe dare un’attenzione particolare, come ho già detto prima, alle donne in maternità».

A che punto è il piano della Chiesa italiana nella lotta ad abusi e pedofilia?

«Rispetto a questo tema così doloroso la Chiesa in Italia non è rimasta a guardare. Fin dalle Linee guida del 2012 – quelle nuove saranno presentate all’Assemblea generale del prossimo maggio – la Cei ricerca gli strumenti più adeguati a contrastare ogni sorta di abusi. Tra i vescovi, infatti, è ferma la consapevolezza che il primo interesse deve essere rivolto ai ragazzi feriti e alle loro famiglie, ritrovando quel “Me ne importa, mi sta a cuore” di don Milani e, al contempo, rigettando ogni forma di strumentalizzazione. La recente istituzione del Servizio nazionale per la tutela dei minori vuole rispondere a queste priorità, con un cambio di passo fondato su prevenzione e formazione. Il Servizio è al lavoro, a partire dalla costituzione dei Servizi regionali e interdiocesani: con la nomina dei vescovi incaricati da ogni Conferenza episcopale regionale, si sta completando un primo tratto del percorso. A seguire, si individueranno diocesi per diocesi uno o più referenti, da avviare a una formazione specifica. Il territorio già si muove in questo senso, penso alla Lombardia, al Trentino-Alto Adige, all’Emilia Romagna, alla Sardegna: segno dell’adesione convinta al cambio di mentalità chiesto dal Papa».

Papa Francesco: come descriverebbe il suo Pontificato?

«Lo descriverei in tre modi. Innanzitutto, come un pontificato profetico che ha raccolto lo spirito del Concilio vaticano II e ha rilanciato alcune categorie che erano finite un po’ ai margini. Penso per esempio al dialogo interreligioso, alla conversione pastorale e alla sinodalità. E in secondo luogo, come il pontificato dell’annuncio del Vangelo sine glossa: l’Evangelii gaudium non è solo il documento programmatico ma è il cuore pulsante dell’azione pastorale di Francesco. Tutto ruota attorno a questo documento pontificio che delinea la cifra morale, spirituale e sociale del pontificato. E infine, è il pontificato delle periferie. Le periferie umane – si pensi per esempio a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, dove è iniziato il giubileo della misericordia – e le periferie esistenziali del mondo contemporaneo. Il Papa ha dunque restituito la centralità a Cristo e ha dato l’immagine di una Chiesa che, a raggiera, è diffusa nel mondo intero».

Come percepisce il futuro prossimo della Chiesa? Quali sono le Sue principali preoccupazioni e ansie e quali le speranze?

«Il futuro non ci appartiene, ma penso che in questi anni sono stati avviati dei processi i cui frutti si potranno comprendere tra molto tempo. Il grande tema della sinodalità, per esempio, se opportunamente sviluppato saprà fornire alla Chiesa un volto nuovo, sempre più autentico, partecipato e meno autoreferenziale. Un primo passaggio lo avremo nell’incontro di riflessione e di spiritualità per la pace nel Mediterraneo che si svolgerà a Bari nel febbraio 2020. Quella sarà una prima grande occasione per sperimentare concretamente lo spirito sinodale e per proporre soluzioni concrete per i problemi che affliggono il Mediterraneo».

La donna nella Chiesa: è un rapporto e una presenza che deve ricevere maggiore attenzione e riconoscimento?

«Senza dubbio sì. Occorre una presenza femminile di qualità e non solo di quantità. È necessario, per il bene della Chiesa, una maggiore presenza femminile nei luoghi di indirizzo pastorale e nei ruoli apicali della Chiesa. Non certo per una questione di suddivisione delle cariche in base ad una sorta di quota rosa ma per avere una visione diversa e più completa. Sono sicuro che su molti temi, tutti noi pastori abbiamo molto da imparare dalle donne»

vai nel sito in cui è stata pubblicata l’intervista il 20 marzo 2019

21 marzo 2019, luigi-clerici